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cotropia

Cotropia: lifeware e coevoluzione mutuale. 
Tracce per una riformulazione del concetto di arte interattiva 
di Tommaso Tozzi 


(conferenza a cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997. Il testo è stato letto da Tommaso Tozzi in occasione del seminario internazionale "L'ombra delle reti", alla Galleria d'Arte Moderna di Torino il 12 aprile 1997. In seguito è stato pubblicato su "La Stanza Rossa", n. 25, anno 6, luglio-settembre 1997, Edizioni dell'Ortica, Bologna)

Il termine entropia viene dall'unione di "energia" e la parola greca "tropos" che significa trasformazione, evoluzione. 
Un nuovo termine potrebbe essere "cotropia" per intendere un'evoluzione cooperativa.
Il termine lifeware vuole rappresentare l'elemento di 'consapevolezza' e libero arbitrio che non è presente nel software e nell'hardware.
Il termine coevoluzione implica un cambiamento o evoluzione negli enti in causa, determinato reciprocamente in modo attivo da entrambe le parti. Non vi è quindi semplicemente un 'agire simultaneo' tra due o più enti, ma vi è nel termine 'coevoluzione' l'implicita condizione che tale agire provochi cambiamenti evolutivi nell'altra parte.
Il secondo termine, mutuale, deriva dalla biologia e viene usato per definire quei sistemi specifici in cui due specie diverse interagiscono tra loro in modo tale da determinare una coevoluzione reciproca che fornisce ad entrambe benefici.
In particolare questo aspetto (che sarebbe dovuto essere interpretato come 'implicito' nel termine interattività) è quasi sempre stato trascurato per favorire e garantire benefici esclusivi a una determinata classe economica o politica, limitandosi a operare una forma di trasmissione ‘verticale’ di segnali informativi invece di un modello orizzontale di 'comunicazione' collettiva.





Premessa
Nel ‘900 si è sviluppata la consapevolezza che la produzione di oggetti, idee o eventi, anche quando siano un atto individuale, sono comunque:
- una rielaborazione del patrimonio collettivo umano (un passo evolutivo)
- artefatti dipendenti dalla struttura del contesto in cui sono prodotti
Dovendo sintetizzare in modo generico, i recenti sviluppi della biologia evolutiva, forti delle scoperte negli ambiti disciplinari più svariati, sembrerebbero indicare una inseparabilità dell’artefatto dallo schema di relazioni entro cui si sviluppa.
La direzione dell’arte del ‘900 ci porta alle soglie del 2000 in uno stato delle cose per cui l’opera (oggetto, idea o evento) non può essere più isolata in un artefatto simbolico o metaforico, ma ‘vive’ nella prassi coevolutiva che lega inscindibilmente soggetti, oggetti, schemi e comportamenti in zone auto-organizzate e autogestite che emergono spontaneamente.
Si scopre che la singola cellula è proprietaria di un sistema neurale proprio (vedi le ricerche nel campo delle nanotecnologie di S. Hameroff in “Ombre della mente” di R. Penrose, 1994) e di come allo stesso tempo la cellule (eucariota) sia il risultato evolutivo di una simbiosi tra organismi differenti (vedi “Microcosmo” di L. Margulis, 1986).
Come nelle recenti interfacce neurali l’immagine passa da simbolo a modello di un comportamento (vedi D. Parisi), allo stesso modo gli schemi di coevoluzione mutuale sostituiscono le carenti e arrugginite potenzialità ‘comunicative’ di un sistema dell’arte basato sull’oggetto o evento metaforico.
Inoltre emerge un nuovo conflitto.
Da una parte l’apparato economico e industriale che spaccia nelle nuove tecnologie (in particolare in quelle in cui il confine tra la macchina e l’organico tende a svanire) un’ipotetica capacità di possedere (o essere tramite di) una coscienza consapevole (fallimento già verificato nelle ricerche sulla ‘intelligenza artificiale’ e che quelle sulla ‘vita artificiale’ tengono prudentemente a distanza dalle proprie finalità di ricerca). Un’ipotesi che crea uno stato psicologico di impotenza passiva di fronte a un nuovo ipoteticamente in grado di creare rimozioni e sostituzioni meccaniche della coscienza individuale.
Dall’altra la rivendicazione della propria autonomia individuale, del sostenere il diritto a (e contemporaneamente la consapevolezza della propria forza di) operare scelte individuali per restare (coevolvendovi mutualmente, ovvero garantendo il beneficio proprio e altrui) all’interno dello schema o di sottrarsene. La consapevolezza che innesti biotecnologici o culturali sono strumenti più deboli (e comunque in grado di essere gestiti dal) del libero arbitrio individuale.
La prima parte usa le tecnologie industriali insieme a quelle culturali per costruire scenari sociali in cui l’individuo assiste in contemplazione estatica, ma passiva, all’emergere del superorganismo e insieme ad esso di feticci, stereotipi e artefatti di super-individui per lui alieni ed alienanti.
Al contrario la seconda pratica e costruisce attivamente zone di attrazione collettiva, transita nelle nuove tecnologie rifiutando di essere costretto in un’unica identità o di servire da superstar o simbolo metaforico di un concetto nel sistema delle merci e dello spettacolo.
Non serve più nell’arte mostrare se stessi come opera, bensì diventa necessario o spontaneo l’operare per garantire la sopravvivenza dello schema che si è contribuito a far emergere e in cui si coevolve mutualmente.
Lifeware non significa far diventare la vita un collage di protesi meccaniche o culturali, ma il difendere e far emergere il libero arbitrio e l’autonomia individuale come qualità principale della vita in un contesto evolutivo in cui il limite tra organico ed inorganico, culturale e biologico è di tipo esclusivamente etico e operativo.



La storia
La concezione scientifica del XVII secolo, con Cartesio, Galileo, Newton, ..., sostituendo una visione della natura come organismo unico (di derivazione aristotelica) con quella di una natura/macchina, pone in atto una tendenza (avviatasi con l’invenzione della stampa) a sottrarre alla natura le qualità spirituali e immateriali per inserirla all’interno di valori e punti di vista laici (vedi F. Capra, “La rete della vita”, 1997, pag. 30). Tali valori e metodi, tipicamente deterministici e meccanici, portano avanti un’idea di diffusione del sapere che ha nel ‘700 con l’Enciclopedia una sua chiara esemplificazione.
Si pone dunque una “strana” distinzione per cui i valori democratici dei metodi moderni di classificazione e distribuzione del sapere sembrano essere in alternativa a un’idea dinamica del mondo ovvero un’idea di enti in stretta relazione e le cui qualità non possono essere valutate separatamente.


Oggi assistiamo a un momento di sintesi dialettica tra il riduzionismo materialista e la visione sistemica nel tentativo di trarre i punti di vista più interessanti e utili da entrambe le parti.
Il perfezionamento del microscopio nel XIX secolo conduce verso una visione meccanica della biologia (F. Capra, op. cit., pag. 34). Le nanotecnologie potrebbero rischiare di creare una nuova tendenza in tale direzione, ma l’attuale unione del mondo organico con quello meccanico potrebbe sottintendere a un equilibrio tra i differenti paradigmi.
La scienza distingue le parti (meccanico/organico) al suo interno facendo di volta in volta prevalere la fisica sulla biologia e viceversa. Ma la questione va posta tra due parti diverse: la “scienza” e la “vita”.
Il campo del ‘non detto’ è di pari valore e merito di quello del ‘dicibile’.
E’ giusto formulare ipotesi o promuovere ricerche. E’ giusto finanziarle. Ma allo stesso modo è giusto finanziare (in modo equivalente!) e promuovere le pratiche quotidiane ‘apparentemente’ anonime e non formulatrici di senso.
La microbiologia, embriologia e teoria cellulare del XIX secolo formulano (in particolare nel libro di J. Loeb “La concezione meccanica della vita”) un’idea di spiegazione meccanica della vita (F. Capra, op. cit., pag. 35). sebbene il padre della medicina moderna, Claude Bernard, fornisca una visione dell’organismo come sistema in equilibrio permanente rispetto alle variazioni dell’ambiente precorrendo dunque il concetto di omeostasi di W. Cannon negli anni 20 del nostro secolo (F. Capra, op. cit., pag. 34).
I romantici, in particolare Goethe, vedono la natura come un tutto e si interessano agli aspetti morfologici. Anche Kant descrive il carattere di relazione tra le parti e per primo introduce il concetto di ‘autorganizzazione’ dell’organismo in relazione al contesto (F. Capra, op. cit., pag. 32). Siamo nel periodo a cavallo tra XVIII e XIX secolo quando nascono le prime forme di servomeccanismi (termostato) ma anche i primi telai a schede perforate.
Secondo Kevin Kelly (“Out of Control”, 1994) il servomeccanismo è il precursore delle moderne forme di macchine autorganizzate (computer,...).
Secondo i biologi ‘organicisti’ del XX secolo “il tutto è maggiore della somma delle sue parti” poiché, oltre alla fisica e alla chimica, va aggiunto il concetto di ‘organizzazione’ e di ‘rapporti organizzati’ (a differenza dei vitalisti che aggiungono invece una non ben chiara entità, forza o campo immateriale) (F. Capra, op. cit., pag. 36).
In questa direzione si sviluppa un interesse verso gli aspetti morfologici di creazione, organizzazione e evoluzione delle forme.
In tal senso, l’opera d’arte, se deve rappresentare la vita, non può essere isolata in un oggetto o evento unico. L’opera d’arte va invece intesa come il sistema di auto-organizzazione spontanea di più enti e delle loro relazioni nel tempo.

La chiave di svolta dal paradigma della meccanica classica a quello della dinamica non lineare si ha con la Teoria della Relatività e in seguito con la meccanica quantistica nel modo in cui questa metta in discussione la logica classica tramite la possibilità di sovrapposizione ‘simultanea’ di stati diversi per lo stesso ente. La meccanica quantistica prevede approcci non di tipo ‘analitico’ ma di tipo ‘sintetico’. Paradossalmente tutto ciò può essere rappresentato in una metafora usata da Schrodinger nel suo libro "Cos’è la vita’ in cui gli ingranaggi di un orologio sono paragonati ai cromosomi e l’orologio stesso a un organismo. E’ evidente che esiste in atto una dialettica tra meccanico e organico".

C. Langton, nell’introduzione al convegno “Vita Artificiale” del 1987, illustra procedimenti scientifici che senza l’ausilio di materiali organici e dunque attraverso simulazioni computazionali, dimostrano come sia possibile spiegare “in che modo comportamenti di tipo biologico emergano dalle interazioni di basso livello entro una popolazione di primitivi logici” (“Sistemi intelligenti”, anno IV, n. 2, agosto 1992, pag. 200). Mi preme sottolineare come ciò non implichi l’emergere di una forma di consapevolezza.
Allo stato delle attuali ricerche ciò sarebbe una pretesa eccessiva. R. Penrose in “Ombre della mente” (1996) assume che la consapevolezza sia il risultato di uno stato coerente quantico della materia organica e che, dunque, il paradigma scientifico della matematica, della logica, etc., debba confrontarsi con la materia organica, la struttura delle cellule, dei microtuboli e con le dinamiche complesse degli organismi.
Secondo Penrose la coscienza è un fenomeno ‘non computazionale’ ma può essere spiegato all’interno di una nuova biologia e della fisica quantistica. Quest’ultima, per le sue conseguenze, accetta come possibile al suo interno l’esistenza della contraddizione (sovrapposizione quantistica).





Il sapere coevolutivo è un sapere ‘quantico’ che nella sua indeterminazione prevede delle sovrapposizioni non previste dalla logica classica.
In tale direzione sembrano essere auspicabili dei modelli computazionali che simulano i processi matematici della biologia.
Processi di auto-apprendimento bottom-up, reti neurali, algoritmi genetici, automi cellulari, sono modelli computazionali che convergono verso tale direzione.
Per quanto sistemi deterministici, tali modelli computazionali hanno bisogno di un supporto organico, biologico. Un supporto che non sia solo l’hardware del sistema, ma che sia parte del processo che viene integrato e contaminanato dalle sue potenzialità indeterministiche e principalmente coevolutive.
Il ‘lifeware’ è un sistema che si avvale di ogni nuova scoperta della fisica (i dimeri di tubulina e le loro potenzialità quantiche all’interno del citoscheletro dei neuroni, i biocomputer, le nanobiologie e le nanotecnologie) integrandole con i processi di tipo computazionale descritti sopra.
Non solo, lifeware non è semplicemente un nuovo modello di macchina, lifeware è un’idea di sapere come ‘sistema coevolutivo’; una rete rizomatica in cui la comunicazione implica la coevoluzione di ogni parte.

Quelli che per Aristotele sono “piccoli accidenti non sostanziali”, ovvero le differenze strutturali e morfologiche di un oggetto da cui se ne ricava il relativo concetto, potrebbero dare al contrario luogo, in un’idea di mente relazionale a modelli del pensiero totalmente differenti a livello generale.
La differenza minima da sola è insignificante, ma se è abbinata a innumerevoli altre differenze minime, con esse diventa fondamentale. Se il pensiero, anzi la verità sta nel dialogo delle cose, bisogna sempre ipotizzare le conseguenze di ogni singolo evento in relazione a molte altre.
Se il sapere non è un’entità astratta, di tipo linguistico e convenzionale in senso nominalista, ma se è ‘in re’, nelle cose, allora ogni forma del sapere sarà, a seconda della cosa in cui è, differente da ogni altra. Non solo, non sarà qualcosa di immutabile, ma seguirà l’evoluzione di tale cosa, sarà in divenire e il suo divenire dovrà confrontarsi con un’evoluzione di tipo ‘culturale’, in stretta relazione con un’evoluzione di tipo biologico, fisico, chimico, ...
Nel medioevo la forma della scrittura si ‘adeguava’ alle logiche linguistiche delle culture orali; la scrittura, per quanto fosse strutturata gerarchicamente in modo molto rigido, era sapere ‘interpretato’, ovvero mediato tramite continui rimandi di citazioni e commentari ad altri testi oppure da un ‘maestro’ che lo trasmetteva fornendone la propria interpretazione. Analogamente oggi cultura e biologia sono strettamente connesse. In particolar modo un essere vivente può essere considerato, citando Pietro Omodeo (da “Biologia evoluzionistica”, 1995), percorso da un “flusso di informazione che rende possibile autocontrollo e controllo nei vari settori dell’attività dell’organismo”. Scrive ancora Omodeo che “come i processi digestivi debbono essere interpretati sulla base dei principi della dinamica e non della meccanica, e i processi metabolici sulla base della termodinamica e non della sola chimica qualitativa, così è divenuto necessario interpretare il divenire degli organismi anche e soprattutto in base ai principi e ai teoremi della teoria dell’informazione”. A sua volta tale ambito richiama le ricerche sulla comunicazione di massa e la sociologia, in particolar modo come evolva il concetto di informazione in seguito alle critiche verso la Teoria dell’Informazione di Shannon interpretata come teoria della trasmissione anziché della comunicazione di un messaggio.



La cultura
Come spiega Dawkins nel libro “Il gene egoista” del 1976, le idee sono virus (memi) in grado di replicarsi e evolvere nel cervello delle persone.

La vita degli uomini dipende sempre più dalla struttura sociale anziché dall’ambiente naturale che li circonda.
E’ la struttura sociale (i supermercati, etc.), anziché gli alberi, a fornire il cibo.
La cultura che sovrintende e organizza la struttura sociale è divenuto un fattore necessario all’interno dei tipi di relazioni mutualistiche necessarie al corpo umano per sopravvivere.
La cultura è un organismo biologico in competizione/cooperazione con gli altri organismi.
Il confine tra la fine di un organismo e l’inizio di un altro è inesistente o convenzionale ai sensi percettivi di ogni singolo organismo.
Il corpo umano definisce i suoi limiti in base alle sue capacità sensoriali. Se si definisce la mente come un organo sensoriale allora anche il concetto di corpo può espandersi fino ai confini spazio/temporali della cultura.
Il progresso si muove nella direzione del superamento della necessità per il corpo dei limiti imposti dal mondo ‘naturale’.
La scoperta del fuoco ha eliminato la dipendenza dal ciclo giorno-notte per poter vedere e riscaldarsi. L’agricoltura e le conseguenti scorte alimentari hanno eliminato la dipendenza dell’alimentazione dalle stagioni.




L’urbanizzazione ha eliminato la necessità dello spostamento nello spazio.
Le simulazioni audiovisive e le telecomunicazioni hanno eliminato la necessità della presenza materiale nello spazio per percepire un evento.
L’evoluzione della cultura scientifica e sociale sembra muoversi nella direzione di un’autonomia della mente dai limiti materiali che il corpo incontra nel mondo naturale.
La cultura, il linguaggio, le forme mediali hanno più possibilità di realizzare un progetto che non la forza bruta.





Le relazioni e le reti rizomatiche messe in opera dalle prassi culturali, fanno emergere ‘meccanismi virtuali’ grazie ai quali pochi individui in gruppo realizzano quello che non sarebbe riuscito a molti individui non correlati attraverso la cultura (è interessante in questo senso ciò che sono riusciti a fare alcune migliaia di scienziati che collegati in rete sono riusciti a decrittare in tempi ristretti un algoritmo di codifica che sembrava inespugnabile se non in tempi lunghissimi, vedi Enciclopedia Britannica del 1996).


La mente umana diviene un nuovo potente organo sensoriale.


Un organo cooperativo, in grado di svilupparsi acquisendo informazioni da altre menti.
La mente umana non è il cervello, ma è il corpo umano in relazione con un insieme di pensieri collettivi (memi) che evolvono all’interno delle architetture individuali.
L’arte è un prodotto della cultura e con essa evolve.
Se l’arte del passato si risolveva in oggetti materiali che fungevano da ‘media’ culturali, l’arte del presente si avvale di ogni sviluppo della cultura e le sue opere diventano sistemi di relazioni collettive in coevoluzione.


L’opera nel presente è determinata dalle connessioni e dalla loro qualità mutualista.
Quello che nel passato si risolveva attraverso un supporto materiale nel presente si risolve nella qualità della trama, nella sua flessibilità e capacità di evolvere.
La sopravvivenza di un’opera non è data dalla resistenza di un materiale, ma dalla sua capacità di mantenersi stabile in uno stato di criticità auto-organizzata.


La coevoluzione
Ci sono due motivi specifici al fatto per cui preferisco usare il termine ‘coevoluzione mutualista’ al termine ‘interattività’.
Il primo è che il termine interattività è stato associato dal mercato negli ultimi anni a qualsiasi cosa, all’interno delle nuove tecnologie informatiche, prevedesse da parte dell’utente una semplice azione all’interno di percorsi prestabiliti.
L’utente interattivo (per il mercato) è diventato qualcosa di simile al signore che nel classico esempio di Searle mostra simboli cinesi in risposta a domande fatte in cinese, in base a istruzioni che gli dicono quali simboli mostrare in risposta ad altri simboli, senza però spiegargliene il significato.
Apparentemente per un osservatore esterno il signore sembra parlare il cinese, ma di fatto lui non conosce il cinese e non capisce ciò che sta facendo.
Gli strumenti ‘interattivi’, così come sono stati proposti dal mercato, non forniscono ne ‘consapevolezza’ ne reale ‘comunicazione interattiva’.
Poiché il termine è oramai troppo pesantemente associato a determinati strumenti tecnologici, preferisco usare i termini ‘coevoluzione mutualista’ per mostrarne le differenze.
Il secondo motivo per cui preferisco usare tali termini è perché in modo più intuitivo descrivono alcune caratteristiche che il termine ‘interattività’ da solo non copre.
La prima caratteristica è che il termine coevoluzione implica un cambiamento o evoluzione negli enti in causa, determinato reciprocamente in modo attivo da entrambe le parti. Non vi è quindi semplicemente un ‘agire simultaneo’ tra due o più enti, ma vi è nel termine ‘coevoluzione’ l’implicita condizione che tale agire provochi cambiamenti evolutivi nell’altra parte.
Il secondo termine, mutualista, deriva dalla biologia e viene usato per definire quei sistemi specifici in cui due specie diverse interagiscono tra loro in modo tale da determinare una coevoluzione reciproca che fornisce ad entrambe benefici.
In particolare questo aspetto (che sarebbe dovuto essere interpretato come ‘implicito’ nel termine interattività) è quasi sempre stato trascurato per favorire e garantire benefici esclusivi a una determinata classe economica o politica e per limitarsi a operare una forma di trasmissione ‘istituzionale’ anziché di ‘comunicazione’ collettiva.



Previsioni - libero arbitrio - comunicazione
Ritengo che la ricchezza del dialogo comunicativo sia da situare nelle continue ‘previsioni’ che emittente e ricevente mettono in atto sulla base delle loro esperienze e sulle continue ‘deformazioni’ volontarie (ma spesso anche involontarie) operate sui messaggi per stabilire la comunicazione.
La ricchezza e l’evoluzione delle idee nella storia sociale è la conseguenza non solo di accordi e deduzioni sul sapere, ma anche di ‘equivoci’, il risultato di un’interpretazione deformata (dunque non fedele) del significato originario della teoria a cui ci si rifà.
Le differenze e in esse gli errori di comprensione sono storicamente produttivi e benefici allo stesso modo delle identità e delle interpretazioni fedeli.
Rispetto a tale ipotesi di ‘meccanismo’ di capacità di fare previsioni, e dunque il possedere una forma di coscienza, ritengo che le pur innovative e notevoli teorie esposte sulla creatività nei modelli di comportamento neurale  sebbene annuncino una positiva evoluzione delle interfacce uomo/macchina non siano sufficienti a far giudicare come interattivi tali meccanismi (intendendo per interattività una reale messa in atto dello scambio comunicativo tra due enti), ma che si rimanga dipendenti dai comportamenti possibili di un meccanismo ‘egoista’. Egoista poiché produce risposte determinate dalla sua struttura in modo meccanico anziché come risultato dialettico tra la sua struttura e la capacità di produrre previsioni sull’emittente o ricevente; un egoismo che è tale solo in quanto risultato di sistemi complessi di emergenza di comportamento indotti dall’equipe che ha costruito il meccanismo, attraverso un tipo di scienza che non è ancora in grado di assegnare consapevolezza alle macchine. L’evoluzione, la mutazione, la novità, in tali sistemi non è una scelta volontaria, bensì meccanica.
 

Ciò che manca ancora alle macchine (ciò che effettivamente hanno cercato, per adesso in modo fallimentare, di realizzare gli scienziati dell’intelligenza artificiale) è la coscienza; intendendo in essa la capacità di fare previsioni, sintesi e scelte in modo individuale e spontaneo rispetto agli input che le provengono dall’esterno e dunque mettere in atto un processo di comunicazione che implica un grado (seppur parzialmente deformato) di comprensione di ciò che l’esterno voleva significare.
Non credo dunque che le macchine (almeno quelle che sono annunciate dalle recenti ricerche sulla vita artificiale) non abbiano una coscienza o non comprendano i messaggi, ma credo che (rispetto al punto di vista umano) siano stupide, ovvero abbiano un campo di esperienza talmente ristretto del mondo (o meglio talmente diverso dal nostro) da limitare le possibilità comunicative tra noi e le macchine a aspetti minimi e parziali del panorama possibile della comunicazione tra due o più individui.
Questo per quello che riguarda la comunicazione ‘fedele’. Poiché però ritengo che anche la comunicazione parzialmente o totalmente deformata possa avere conseguenze, ritengo che vi siano delle possibilità di crescita della nostra esperienza nel dialogo anche con macchine secondo il nostro punto di vista ‘stupide’.
Il rischio è un fenomeno di ‘alienazione partecipativa’ in quanto l’egoismo della macchina esclude una partecipazione attiva dell’individuo che non riceve risposte ai suoi messaggi quanto interpretazioni libere o preprogrammate della macchina sul mondo.

Fino a quando le macchine non avranno una coscienza (di tipo umano) è necessario che la comunicazione sociale non sia di tipo meccanico, ma integri l’uso della macchina a quello della coscienza umana.

La rete Internet (nei suoi aspetti di chat o conferenze) è interessante perché in essa, seppur integrata e mediata da un’interfaccia meccanica, vi è la presenza di altri individui con coscienza umana con cui stabilire comunicazione. Al momento in cui questa possibilità di reale interattività venisse meno (per motivi di censura, accesso, legislativi, economici, etc.) o sostituita ‘totalmente’ da agenti meccanici (vedi i knowbot o i cosiddetti software ‘push’ se usati al posto degli individui in modo totale) ciò che rimarrebbe di Internet non sarebbe più una rete , ma un circuito di una enorme macchina complessa assolutamente alienante e asservita a scopi funzionali di scarso interesse per l’uomo.
In tal senso le interfacce devono essere fluttuanti.
In quanto devono mediare l’organico con il meccanico.

E l’organico non solo per le sue capacità spontanee e auto-organizzanti di evolvere, ma anche per le sue qualità morali di libero arbitrio.


E’ per questo che ritengo le reti interessanti solo se aperte a situazioni cooperative e coevolutive quali sono per esempio i centri sociali, i movimenti in genere e qualsiasi altra forma libera, spontanea e collettiva di uso delle reti.
Questo secolo è stato improntato dallo sviluppo di nuovi paradigmi coevolutivi della comunicazione, ma soprattutto della creazione del sapere e dalla sperimentazione artistica.
La storia dell’arte del novecento è la storia di gruppi che hanno creato relazioni, operato e partecipato a movimenti collettivi che valgono solo nella loro complessità non riducibile alle singole parti.
L’opera d’arte del novecento è in questo senso coevolutiva. Ed è inseparabile da storie, concetti, idee, relazioni e movimenti sociali che si sono susseguiti nel tempo.
L’emergere della libertà di tali idee, della loro forza e umanità risiede nella loro struttura assolutamente spontanea e correlata.
La coevoluzione in atto non è riducibile a una singola macchina, individuo oggetto o idea.
Dobbiamo muoverci e produrre nel tutto. Altrimenti avremo bellissime opere e bellissime macchine che arrugginiscono separate da potenti e enormi emozioni umane inespresse e alienate.

Una radicalizzazione di tale considerazione sulla corrispondenza tra forma-corpo (morfogenesi?) e pensiero rischia di cadere in una radicalizzazione di differenziazioni di specie attraverso la semplice struttura del corpo.
Va, credo, saputa intuire una possibilità di essere in relazione tra due strutture (in questo caso uomo/corpo e macchina) e di come il pensiero dell’una influenza l’altra al punto da non poterle separare e distinguere con certezza. Sono differenze di gradi e variabili spazialmente e temporalmente.
Vi sono aspetti del pensiero della macchina e dell’uomo che non corrispondono, ma tali aspetti evolvono e mutano nel tempo in modo tale da rendere una loro descrizione come un entità dinamica in continua oscillazione che necessita quindi di una terminologia “sfumata” e in continua riformulazione.
Le macchine stanno sempre più avvalendosi di strutture con un corpo biologico e viceversa gli uomini tendono sempre più a modellare o a “riparare” il proprio corpo con l’ausilio di tecnologie e protesi meccaniche.
L’assemblaggio ‘meccanico’ di parti biologiche nella metafora del Golem o del Frankenstein ha possibilità di successo? E nel caso il corpo risultante va considerato una macchina o un uomo? E il pensiero di un corpo biotecnologico sarà il pensiero di una macchina o di un uomo?
E’ giusto assegnare, o cercare di farlo, il libero arbitrio alle macchine?
Che genere di enti sarebbero delle macchine ‘organiche’ in possesso di un loro libero arbitrio?
Sarebbero uomini o macchine?
Il libero arbitrio è una qualità unicamente ‘umana’?
Se così non fosse e se fosse possibile far emergere il libero arbitrio a un meccanismo, saremmo di fronte a una nuova specie evolutiva o sarebbe un’evoluzione della specie umana?

Solo se si accetta che la comunicazione è tale solo se implica l’evoluzione dell’emittente insieme al ricevente (e dunque un feedback che produca effetti evolutivi e dialettici) si può garantire la fluidità dei sistemi sociali, la loro evoluzione e evitare una cristallizzazione su valori ‘assoluti’.
Se si accetta di definire comunicazione (in quanto ‘evocativa’) la trasmissione ‘unidirezionale’ di un messaggio (pur con conseguenze ‘evolutive’ nel ricevente), si rischia di creare una separazione dell’essere individuale (dell’emittente) che non è più contingente e immanente alle situazioni quotidiane, bensì un alter ego separato e virtuale che potrebbe rischiare di sovrapporsi all’essere deformandone le qualità oltreché le necessità prettamente ‘umane’.
Il linguaggio, così come i vari media, sono possibili estensioni del corpo che possono favorire la comunicazione. Tale comunicazione però non può più esistere nel momento in cui venga cessato ogni tipo di legame con l’individuo che li ha usati per comunicare.
La cultura può essere essa stessa un’estensione ‘biologica’ del corpo in grado di produrre e stimolare evoluzione negli individui, ma quando la cultura è separata dall’individuo diventa un secondo organismo, diverso e di una specie non umana.
Credo che sia possibile l’esistenza di nuove specie evolutive, risultato degli incroci tra individui, macchine e culture, ma l’essere e la specie umana devono mantenere una loro ‘autonomia’.
Credo sia necessario il dialogo con ogni possibile forma di vita e questo è l’obiettivo primario delle ricerche sulla vita artificiale (C. Langton in “Vita artificiale”, 1989), ma l’individuo deve avere una sua autonomia e libero arbitrio che lo distingua e gli permetta di distinguersi da ciò che lo circonda. In modo equivalente la comunicazione è a mio avviso definibile solo quando vi sia la reale partecipazione e conseguente evoluzione tra individui e in particolare tra emittenti e riceventi.

L’arte delle strade ha sollevato il coperchio dei musei e delle biblioteche.
Ha riportato la conoscenza e la comunicazione a vivere ed evolvere nel quotidiano.
La sottrazione progressiva e la separazione del sapere dalla vita ha creato una forma di classificazione e di meccanica nella comunicazione che, per rendere immortale il sapere, ne ha sacrificato la dimensione individuale in una forma di alienazione succube alle logiche economiche e politiche relative alla nascita delle forme di Stato sviluppatesi tra il 1600 e il 1700.
L’arte delle strade è l’esplosione della conoscenza e della comunicazione disposta a deperire seguendo i ritmi biologici che uniscono corpo e mente, materia e cultura in quell’unità autonoma definita individuo.
La tecnologia delle reti, ma andando oltre, il concetto stesso di sistema sociale in rete, ha permesso alle due forme culturali, meccaniche e dinamiche, tipiche del linguaggio della scrittura e della parola orale, di riunirsi attraverso una dialettica in cui i codici genetici della cultura, i memi (quella forma di vita biologica immateriale che è sostanza di ogni individuo attraverso la cultura) sono in inscindibile relazione ed evoluzione con l’indeterminazione evolutiva della sostanza biologica materiale.
Nelle recenti interfacce neurali, ma più in generale nel concetto emergente di opera, il comportamento e la prassi sostituiscono il simbolo, in quanto sintesi di un nuovo modello di relazioni e in divenire.
Ma il comportamento non può essere a sua volta una forma di emergenza meccanica finalizzata a scopi funzionali seppur attraverso procedimenti induttivi e sintetici del percorso scientifico, ma deve essere in grado di riflettere l’autonomia, il libero arbitrio e la consapevolezza dell’individuo.
E’ il libero arbitrio mediato dalla consapevolezza che produce la possibilità di fare previsioni. E tali previsioni sono il cuore che pilota le deformazioni dell’informazione producendo come risultato il grado di comunicazione.
Il concetto stesso di sistema sociale in rete implica un’inscindibile relazione di ogni unità individuale organica con il mondo dell’inorganico.
La vita emerge dalle relazioni di molteplici sistemi in rete e tali sistemi possono essere anche artefatti meccanici.
Bisogna imparare a convivere e rispettare ogni forma di diversità anche quella della materia, poiché è con esse che coevolviamo.
Ma dobbiamo mantenere ben ferma in noi l’idea per cui l’individuo per vivere ha bisogno di comunicazione e questa non può esistere senza comprensione e dunque ‘volontà’ di convivenza.
Senza tali qualità si hanno forme di vita ‘egoiste’ che possono creare alter ego di noi nello spazio immateriale e che saranno forme alienate dalla comunicazione e in esso controproducenti e deteriori per l’evoluzione della specie umana.





L’interfaccia fluttuante
I sensi sono non solo l’interfaccia con il mondo (il filtro tra noi e l’esterno) ma ne sono allo stesso tempo il ‘legame’.
I sensi stringono relazioni con il mondo che rendono noi e il mondo tra loro interdipendenti.
In particolare con le nuove forme di comunicazione i sensi sono potenziati e in grado di estendersi, duplicarsi e mutarsi non solo per raccogliere o emettere informazioni, ma per creare una rete intricata e complessa di legami che rendono noi e il mondo un unico organismo complesso. Un organismo composto di differenze più che di unità.
Allo stesso modo l’interfaccia non va intesa come un semplice filtro di traduzione tra enti diversi, ma è la connessione, il legame che li tiene uniti rendendoli l’uno dipendente dall’altro secondo pesi maggiori o minori in relazione alle molteplici altre connessioni che ciascun ente mette simultaneamente in atto con numerosi altri enti ognuno dei quali in grado di influire sul peso degli altri.
L’interfaccia (e la comunicazione) non è un semplice filtro di traduzione e attribuzione di senso e decodifica, ma è contemporaneamente uno stretto legame di coevoluzione tra gli enti relazionati.

Fare un software che prevede la cooperazione tra utente e macchina è estremamente difficile a causa delle logiche stesse di programmazione e costruzione dell’hardware fino ad ora adottate.
E’ necessaria dunque una riformulazione di tali linguaggi e di tali modelli progettuali, che renda possibile creare “interfacce cooperative” in modo semplice e veloce. Le reti neurali sono un passo in tale direzione. Un passo necessario ma non sufficiente. Ora si tratta di comprendere che l’interfaccia e i programmi non sono qualcosa di esclusivamente meccanico e matematico, ma devono includere altre zone e discipline: la psicologia, la sociologia, l’etologia, la biologia, l’etica, ... ma soprattutto devono essere integrate in un utilizzo personalizzato e relazionato con le situazioni contingenti cui sono finalizzate.
Come un libro in una biblioteca è una forma di sapere ‘separato’ dagli individui e dallo stesso autore, allo stesso modo ogni software e ogni computer non può essere progettato separatamente dall’autore e dall’utente.
Non si può pensare a software creati in scala per un’unica tipologia di uso.
Ma ogni interfaccia deve essere relativa alla situazione per cui viene creata e dunque l’interfaccia deve nascere dal dialogo tra programmatore/i e utente/i e tale rapporto non deve mai venire meno al punto che l’utente possa essere in grado di essere programmatore esso stesso e dunque di riprogrammare l’interfaccia e viceversa. L’interfaccia deve essere fluttuante, ovvero in grado di evolvere nel tempo e in base alle relazioni e al dialogo con gli utenti.



Identità multiple
Accettare un’identità significa conferire validità a un metodo specifico di classificazione dell’essere.
Significa accettare che la propria determinazione sociale e ogni sua possibile mutazione possono situarsi solo all’interno del codice di classificazione accettato.
La nostra vita è complessa, al punto da richiedere identità molteplici ovvero sovrapposizioni continue di un numero indefinito di codici e metodi di classificazione della medesima.
Una legge che imponga alla vita un’unica chiave di lettura è ‘inaccettabile’.
L’identità unica dell’individuo è la conseguenza del paradigma scientifico meccanico di classificazione del sapere. Attualmente viviamo in una società di relazioni complesse basate sulla dinamica dei rapporti. Il digitale, ultima uscita della meccanica è costretto a dialogare, confrontarsi e interagire con l’analogico, garantendo nel fare questo le qualità indeterminate dell’essere.



La cooperazione
Il termine ‘lifeware’ è il tentativo di mettere in relazione produttiva le discipline biologiche e umanistiche con quelle meccaniche e scientifiche.
E’ l’ipotesi di creare una rete tra i vari ambiti disciplinari che dimostri l’impossibilità di discernere le tecnologie dalla mente umana (nella loro capacità bidirezionale di influenzarsi reciprocamente, vedi P. Levy, “Le tecnologie dell’intelligenza”, 1990), l’impossibilità di creare all’interno di un’unica disciplina (il calcolo computazionale e dunque tutte le discipline discendenti dirette della matematica: informatica, cibernetica, logica, ...), una teoria in grado di dare consistenza ai propri assiomi (vedi R. Penrose, op. cit.) e dunque la necessità di affiancare tali ambiti a quelli della nuova fisica e chimica emergente (la meccanica quantistica, le nanotecnologie, vedi Hameroff in “Vita Artificiale”, 1989), ai loro nuovi mezzi di osservazione (vedi la tecnica di microscopia STM e ATM in “Bioelettronica e nanotecnologie per la bioingegneria”, 1992) con quelli di una nuova biologia (vedi Dawkins,op. cit., e “Biologia evoluzionistica”, 1995) e di come questa attinga a piene mani dalle formule matematiche e dai modelli di simulazione che ruotano intorno agli emergenti studi sulla ‘vita artificiale’ (vedi S. Kauffman in “Le Scienze” quaderni, aprile 1996 e tutta l’attività dei laboratori di Santa Fè nel New Mexico in M. Waldrop, “Complessità”, 1987).
Di come la paleontologia e l’etologia possono essere aree del sapere e della ricerca che possono fornire contributi fondamentali non tanto per ‘capire’, quanto per far evolvere nuove ‘ipotesi’ su ciò che siamo, sulle dinamiche sociali e sui concetti infine di etica e di estetica.

Penso sia necessaria la capacità di far interagire i tratti comuni ad ambiti e discipline differenti quali la biologia, l’arte, la matematica, sociologia, la fisica, la chimica, la psicologia, la paleoantropologia, religione, l’etologia e tante altre materie ancora, rilevando in ognuna di queste discipline le caratteristiche relative agli elementi relazionali, cooperativi ed evolutivi di un determinato ente.
La capacità di affrontare i problemi dell’epigenesi all’interno di strutture complesse sia di tipo organico, che inorganico e persino culturale.
Trovare quale siano i tratti caratteristici in grado di unire in un’ottica evolutiva e cooperativa il patrimonio strutturale, culturale e semantico di un determinato ente.
Credo che la ‘vita artificiale’ debba occuparsi anche di questo.

L’idea di cooperazione ha un enorme passato storico, politico e sociologico da cui si sono sviluppate forme attuali complesse.
L’analisi dei principi da cui si è sviluppata tale idea non riesce ad avere un’origine fissa, ma deve per forza di cose fluttuare tra momenti e luoghi storici tra loro distanti.
Si può cercare però di trovare delle forme comuni ricorrenti anche in tale idea, così come nello sviluppo evolutivo di forme di simbiosi mutualista tra specie, oppure nell’evoluzione di modelli di relazioni tra forze fisiche o chimiche.
Non si tratta di trovare una ‘regola’ comune, quanto il trovare corrispondenze che ci permettano e ci aiutino a fare previsioni rispetto a modelli differenti.



Le reti telematiche e la vita artificiale
Così come gli studi sulla vita artificiale si muovono nell’ottica di costruire sistemi complessi assegnando semplici regole di controllo locale da cui emergono spontaneamente comportamenti complessi globali, in modo analogo è interessante vedere la regolamentazione delle reti come un comportamento emergente in primo luogo dal sistema risultante dalle interazioni tra individui che si auto-controllano in base alle proprie scelte individuali di relazione sociale e quindi ai loro successi e insuccessi privati di interazione sociale. Da tali interazioni individuali emergono spontaneamente le ‘netiquette’ che divengono il ‘patrimonio sociale’ specifico di una singola rete telematica non scritto ma praticato di fatto.
L’unione di più reti (dunque il passaggio da un sistema di rete a un altro sistema di rete che lo contiene almeno parzialmente) crea analogamente l’emergere spontaneo di regole di comportamento globali, non scritte che derivano dalla collaborazione di unità che si auto-controllano. Unità nel senso analogico (e quantistico) anziché digitale: ovverosia un’entità ‘indeterminata’ e fluttuante di cui si può descrivere lo stato solo nel momento dell’osservazione e solamente considerandolo all’interno di un insieme di relazioni. Non dunque un valore discreto e determinato. Un concetto di unità descrivibile, per fare un paragone, come l’improvviso emergere di un sistema di organizzazione come avviene per un uragano: riconoscibile ma impredicibile nel senso della complessità e non linearità del sistema.



L’opera
Nei primi anni venti il filosofo C.D.Broad coniò la definizione di ‘proprietà emergenti’ per quelle proprietà che emergono a un certo livello di complessità, ma che non esistono a livelli inferiori (Capra, op. cit., pag. 39).
Come è possibile attribuire dei concetti, dei significati a un singolo oggetto (opera d’arte) quando questi ‘emergono’ chiaramente dalle relazioni messe in atto in sistemi complessi tra enti molteplici?
Un’emozione, sia il provocarla che il riceverla è un atto correlato e che non potrebbe avvenire se non grazie a tali correlazioni tra più eventi, stati e cose. Oltre all’oggetto che la provoca e al contesto in cui la percepiamo, è fondamentale lo ‘stato’ interno di noi che la riceviamo. Se non fossimo predisposti in tal modo non saremmo in grado di riceverla e l’essere predisposti in un determinato stato è il risultato di una quantità enorme di fattori che hanno ognuno pari dignità e valore nel provocare tale emozione. Dunque il valore sta nell’oggetto solo in relazione a ciò che ha provocato il nostro stato e al contesto in cui è inserito. Dunque non è possibile comprare un’opera pagando un singolo oggetto, e moltissimi enti, cose e eventi potrebbero rivendicare una parziale paternità dell’opera acquistata e chiedere dunque di essere ricompensati come colui che ha prodotto ‘semplicemente’ l’oggetto.

L’arte evolutiva, prodotto di software di tipo neurale o di ricerche sulla vita artificiale, se proposta come immagine del risultato non è coerente al nuovo paradigma scientifico.
La coerenza con i nuovi paradigmi della scienza implica un tipo di oggetto artistico fluttuante, rizomatico e in divenire.
In tal senso non sono opera d’arte le immagini di arte evolutiva, ma lo sono in modo più chiaro, coerente e operativo la struttura rizomatica dei movimenti di controinformazione, i centri sociali, le reti telematiche, le ricerche scientifiche e le relazioni messe in atto tra gli scienziati.
L’arte evolutiva non è il feticcio, l’ombra della ricerca ‘seria’ degli scienziati, ma alla pari e insieme agli scienziati, è ogni sistema che produce relazioni e ricerche coevolutive di tipo mutualista.

Per analogia il risultato del convegno del Pecci del 1995 dal titolo “Diritto alla comunicazione nello scenario di fine millennio” (vedi Strano Network, “Nubi all’orizzonte”, 1996) è stata la conferma di voler difendere il criterio di ‘auto-determinazione’ delle regole di comportamento delle singole reti amatoriali italiane.
L’unione libera e auto-regolamentata di tali reti è l’emergere di un’opera d’arte. Un fenomeno spontaneo a cui partecipano un numero complesso di fattori e individui.
Un’opera d’arte che non si appende alle pareti del museo, ma che può vivere in determinati momenti grazie ‘anche’ all’attività del museo.
In questo senso il convegno del Museo Pecci è stato un contributo all’esistenza di un’opera d’arte collettiva.
Questa è la funzione dei musei nel 2000.
Tale idea di opera implica la necessità di rispondere a una domanda: Come si riconosce un sistema opera d’arte?
Devo dire che questa domanda imposta di per sé il problema nel modo sbagliato.
Se infatti c’è stato un cambiamento paradigmatico di rilievo nell’arte dagli anni ‘70 a ora esso è stato nel fatto che coloro che proseguivano le ricerche artistiche precedenti, o ne facevano di nuove, lo facevano al di fuori del sistema dell’arte e (più o meno consapevolmente) senza porsi problematiche ‘specificatamente’ artistiche.
L’arte recente (ma in realtà tutto il secolo ha vissuto l’evolversi di ricerche artistiche in tale direzione) si sviluppa fuori dal contesto ufficiale dell’arte e ‘soprattutto’ non si pone problematiche di tipo artistico.
In tal senso la domanda precedente pone l’opera all’interno di un sistema estetico che non è quello praticato ‘di fatto’ nell’arte contemporanea. Ma cercherò comunque di darle una risposta in modo sintetico:
L’opera è un sistema di relazioni in coevoluzione mutuale.
  1. Appare e viene riconosciuta a e da coloro che vi sono coinvolti e che in modo più o meno determinante contribuiscono alla sua emergenza. L’evidenza di tale sistema è qualcosa di descrivibile tramite il linguaggio, ma è anche uno stato d’animo collettivo percepibile in modo conscio o inconscio a livello individuale. L’urgenza del convegno del Museo Pecci era determinata da una necessità da una parte ‘contingente’ alle recenti evoluzioni legislative italiane che minavano le libertà delle reti amatoriali, dall’altra dal riconoscimento di una sensibilità collettiva nuova che potenziava i rapporti sociali attraverso le reti garantendone alcune qualità fondamentali quale è innanzi tutto il diritto alla comunicazione e dunque un uso delle nuove tecnologie mediali finalizzato a ciò. 
  2.  La coevoluzione messa in atto attraverso le relazioni del sistema/opera d’arte deve essere di tipo mutualista, ovvero ‘deve’ produrre un beneficio per ciascuna delle parti che viene coinvolta in essa. Lo scambio non deve essere di tipo simbiotico, ma mutualista. Tale caratteristica è il risultato di una coevoluzione tra enti e individui. Tale coevoluzione non segue un’ipotetica via darwinista di selezione naturale, ma è meglio inquadrata in un’ipotesi lamarkiana di finalità e consapevolezza. Nello scambio non sopravvive il più forte, ma gli enti in causa sono in grado di auto-adattarsi per garantire il proprio beneficio locale in relazione all’evoluzione del contesto globale. In tale ottica lo scambio dei saperi a livello sociale deve avere e essere portatore di senso e tale senso è tale solo se implica il beneficio di ogni individualità. Le mutazioni individuali non devono essere un risultato casuale all’interno del sistema evolutivo, bensì quello caotico e complesso emergente da scelte e dal libero arbitrio individuale (Kant è stato forse non a caso uno dei primi a usare il termine autorganizzazione).

Alla visione ‘meccanica’ dell’opera ne va sostituita una complessa per cui la materia dell’opera sia un insieme di relazioni facenti parte del mondo, che vengono attivate nel tempo da ogni ente che le determina e che sono in grado di evolvere secondo dinamiche non lineari e complesse in comportamenti emergenti che sono la parte apparente del ‘lifeware’, ciò che (in ogni momento in modo diverso) siamo in grado di esperire nel mondo fenomenico. D’altronde la parte apparente del lifeware non potrebbe emergere se non esistesse la sua parte materiale che è costituita dalle relazioni tra gli enti che ne fanno parte.
L’opera è il lifeware, un’entità inseparabile, e in divenire, composta da relazioni e comportamenti emergenti consecutivi a tali relazioni.

L’arte del passato si è evoluta in simbiosi mutualista con il paradigma meccanico, riflettendone nel campo dell’estetica la sostanza centrale.
L’arte contemporanea, ma in buona parte l’arte del XX secolo, sta riflettendo i segni di una mutazione in atto nel paradigma della meccanica.
Raggiunto il suo punto di crisi con l’intelligenza artificiale (con il suo fallimento) la scienza sta evolvendo in un nuovo comportamento paradigmatico che la vede spostare il suo centro dalla meccanica classica alla dinamica non lineare.
La scienza sta manifestando un interesse crescente verso le materie biologiche, e il comportamento dei sistemi viventi.
Per essere più precisi, il confine della vita si è esteso alla fisica e alla chimica (dunque all’inorganico). E’ stato assunto come possibile parziale definizione della vita la scoperta di comportamenti emergenti nelle forze e nella materia. Comportamenti che evolvono spontaneamente un proprio carattere autonomo, auto-organizzato, caotico ed infine e soprattutto auto-replicabile.
Le relazioni all’interno di sistemi complessi diventano oggetto della ricerca scientifica e con essi coevolve mutualisticamente un nuovo paradigma artistico che ha nell’equazione arte=vita la sua più alta ed efficace descrizione. L’arte del novecento esce dall’oggetto e dalla sua logica meccanica di rapporto artista-oggetto-spettatore per estendersi al contesto, all’ambiente e alle innumerevoli relazioni materiali e semantiche che tale uscita comporta.
L’opera è un tutt’uno con le relazioni messe in atto tra persone, enti, cose e situazioni in esse inseparabile e da esse indistinguibile. Nel nuovo paradigma artistico contemporaneo la critica diventa parte integrante dell’opera.





Cos’è creativo e cos’è artistico.
L’artisticità emerge spontaneamente dalla connessione di unità creative.
L’artisticità è una qualità del sistema, non dell’unità che vi fa parte.
L’opera d’arte esiste nel momento in cui essa è un sistema di connessioni di unità creative che liberamente e spontaneamente fanno emergere la ‘loro’ definizione di ‘artisticità’, che si differenzierà da quella emergente da un sistema vicino e che potrà comunque cambiare e mutare evolvendo nel tempo.
Coloro che nel futuro saranno unità evolute all’interno o attraverso tale sistema, porteranno in se la ‘traccia’ genetica di tale accordo collettivo e di fronte a un elemento prodotto nel passato da tale sistema e da tale sistema definito artistico saranno in grado di riconoscere e abbinare la struttura morfologica di tale prodotto con la traccia genetica che loro possiedono.
Questo riconoscimento, questa messa in atto degli archetipi collettivi non possono essere fraintesi per un giudizio di ‘artisticità’ intrinseca all’oggetto, ma quanto il riconoscere in tale oggetto una traccia della vera opera, ovverosia del sistema di connessioni di unità creative e del loro accordo ‘temporaneo’ e ‘transitorio’ di ciò che per loro era reputato artistico.

I memi sono la definizione di una tipologia riproduttiva dell’individuo attuata attraverso modelli culturali (concetti, idee, ...) che si propagano nel cervello delle persone.
Si definiscono come fattore che contribuisce a controllare il carattere evolutivo della selezione naturale.






Oltre ai geni e al genoma, abbiamo dunque i memi.
Vorrei aggiungere una possibile forma strutturale da integrare nell’insieme di forze che caratterizzano l’evoluzione della specie. Tale forma può essere vista come una via di mezzo tra l’idea di ‘sistema’ e ‘bacino d’attrazione’ e vuole indicare quei sistemi che fungono da ‘hardware strutturale’ dove i memi sono in grado di ricombinarsi e evolvere.
Forse il termine lifeware può indicare quei sistemi che, grazie alle loro qualità strutturali, sono in grado di far ‘coesistere’ e ‘coevolvere’ al loro interno forme diverse memiche, morfologiche, organiche, ...

Virtual Town BBS, le relazioni e quello che ha messo in atto dal 1990 a ora, tutto ciò è un ‘lifeware’, in quanto non è un patrimonio genetico di istruzioni da eseguire (genoma), non è un concetto (meme), ma è il sistema ‘neutrale’ e ‘orizzontale’ in grado di fungere da una parte da ‘bacino di attrazione’ di forze diverse e dall’altro di garantire a ognuna di queste forze, attraverso la loro autonoma forma di libero arbitrio, di interagire tra loro mutandosi e coevolvendo reciprocamente.
Una strategia è un ‘lifeware’.
Un ‘movimento’, un ‘collettivo’ è un ‘lifeware’.
Di fatto, la tendenza dei movimenti e delle avanguardie artisiche di questo secolo si è indirizzata verso la realizzazione di ‘lifeware’ anziché di ‘oggetti’ d’arte.
L’opera si è smaterializzata. Si è concentrata sulla sua duplicazione e distribuzione.
L’opera si è integrata in modo mutuale con le strategie ad essa collegate.
Il concetto di artista come individuo unico si è disperso all’interno da una parte delle strategie di mercato che pilotavano e creavano il contesto delle sue opere e dall’altra nei movimenti culturali, fuori dal mercato, messi in atto dalle idee e azioni quotidiane dell’artista e di coloro con cui egli stabiliva connessioni.
L’oggetto d’arte ha perso progressivamente valore riducendosi a pedina di un sistema complesso di connessioni coevolutive che segnano e coordinano l’evoluzione della storia dell’arte contemporanea.

L’opera d’arte è diventata la capacità di creare un sistema, un ‘lifeware’ in grado di far emergere un ordine stabile all’interno di una molteplicità complessa e caotica di unità organiche e concettuali, che nella loro connessione reciproca trovano una via possibile per evolvere.
Tali sistemi in bilico tra ordine e caos sono in grado di far emergere ‘spontaneamente’ la vita garantendo al tempo stesso la totale autonomia a ogni unità che entra a farvi parte.

Tutto il XX secolo è stato attraversato non solo nella scienza, ma anche specificatamente nell’arte, da idee e movimenti artistici che hanno spinto verso tale concetto di opera d’arte.
Le necessità della separazione sono necessità di modelli culturali e caste sociali del passato.
Il nuovo millennio si apre con le basi scientifiche e culturali pronte ad accogliere un nuovo paradigma di opera d’arte che non implica la separazione, ma in cui ogni categoria (artisti, gallerie, riviste, musei, collezionisti, pubblico) è unita indissolubilmente in un’unica opera d’arte.
Ognuna di tali categorie si rilivella per coevolvere secondo dinamiche orizzontali con le altre.
Musei, riviste, gallerie, artisti, ..., entrano nelle case dell’individuo singolo o del gruppo nel senso che nascono forme di autogestione individuale dei luoghi della produzione e distribuzione.

Da ciò consegue un sistema di relazioni che non ha più al suo centro la conservazione dell’oggetto fisico o una sua denotazione di valore, bensì la necessità che esso (ciò che esso significa) circoli all’interno del sistema di relazioni.
Ogni cosa diventa soggetta a evoluzioni per crescere come un organismo vivente unico insieme ad ogni altra.
I musei dunque non sono più il luogo della ‘conservazione’, ma dapprima il luogo della ‘distribuzione’ e infine della connessione.
Il concetto di museo si apre a ogni dinamica di relazioni che ‘difenda’ la crescita parallela di ogni ente che partecipa alla coevoluzione dell’opera.
Gli investimenti sono dunque ripensati in base a nuove logiche culturali per potenziare le possibilità che ogni persona partecipi attivamente e in ‘completa autonomia’ alle proposte e alla loro messa in atto di nuove forme coevolutive di relazioni.
Lifeware non è una ‘rivoluzione’ dell’attuale sistema dell’arte.

L’idea di lifeware non prevede la sparizione delle attuali categorie artistiche (artista, galleria, museo, rivista, ...), ma evolve l’attuale sistema grazie all’emergere spontaneo in pratiche autonome e consapevoli di una mutazione fondamentale che implica un diverso modello di relazioni tra tali categorie.
Le categorie rimangono, ciò che cambia è il loro valore di ‘connessione’ e il ‘peso’ che esse hanno all’interno di tale nuova rete di relazioni.
Il gene mutante che si aggiunge al DNA di tale organismo amplifica lo sviluppo delle connessioni e la loro ‘bidirezionalità’. Prevede che ogni unità sia un’unità con una propria ‘autonomia’ specifica, ma che sia contemporaneamente in grado di partecipare, entrare in relazione e ‘produrre’ coevoluzione con ogni altra unità del sistema.
Una modifica processuale e non strutturale è in grado di garantire quel livello di casualità, indeterminismo e reciprocità che sono necessari alla coevoluzione di un sistema.

Joe Hanson che crea sfere di vetro al cui interno coevolvono organismi gioca a fare il Dio che crea i sistemi coevolutivi.
Le unità di ogni sistema devono in realtà avere una loro autonomia e capacità di libero arbitrio che gli permetta di scegliere quando e in quale sistema coevolvere.
L’opera intesa come sistema coevolutivo non viene creata da un singolo ma viene creata dal basso e emerge spontaneamente attraverso la libera scelta.
Ci si può trovare a far parte di un’opera senza che ci se ne fosse accorti in precedenza, ma si deve essere in ogni momento liberi di sottrarsi ad essa. E’ solo grazie a questo grado di libertà e quindi di diversità che il sistema potrà mutare e coevolvere.

In tale ottica va completamente rivista ogni specifica ‘struttura’ del sistema dell’arte:
  • Il museo non è più il contenitore di opere d’arte, ma è parte esso stesso di una o contemporaneamente più opere ed esiste nella capacità di creare relazioni tra oggetti, individui, eventi, discipline e concetti.
  • Gli investimenti non devono più andare verso la ‘conservazione’ o presentazione del singolo oggetto o della singola teoria, ma verso la conservazione o presentazione del sistema di relazioni e di strategie che esso sottende, messe in atto simultaneamente da un insieme di enti e ambiti differenti. Se l’opera è il risultato temporaneo di un mutamento comportamentale o mentale, la conservazione dell’opera significa la conservazione (in senso omeostatico) della stabilità per cui grazie a specifici fenomeni di dissipazione si mantiene tale nuovo modello comportamentale o mentale in atto. E dunque gli investimenti vanno saputi fare distribuendo denaro a ogni individuo o situazione che produce accadimenti necessari all’esistenza del sistema. Ogni opera diventa una piccola forma di ‘comunità’ o ‘sistema’ all’interno o in relazione con comunità o sistemi più o meno ampi. Le comunità possono essere virtuali, così come le relazioni stesse.



I movimenti
L’arte evolutiva deve essere cooperativa e deve garantire benefici alle unità che cooperano nel sistema.
Gli esempi migliori di questo genere di sistemi li ‘viviamo’ quotidianamente nella vita. 
Ecco perché la linea artistica che ha permeato e reso significativa l’arte del ‘900 è quella che si può riassumere nell’indistinguibilità tra arte e pratiche comunitarie. E’ l’arte dei movimenti. Movimenti artistici, ma anche movimenti controculturali e sociali. 
Sistemi che hanno realmente fatto emergere spontaneamente e in modo auto-organizzato nuovi comportamenti, sensibilità, significati da cui ha tratto beneficio l’intera umanità. Oltre ai significativi esempi delle opere/evento, degli happening, delle ‘situazioni’ messe in atto da individui che hanno cooperato tra loro in ambiti al confine tra arte e vita mantenendo un grado di stabilità data dalla continua coevoluzione delle singole unità, i movimenti controculturali e tutte le forme di relazione messe in atto a livello sociale (quali sono ad esempio stati il fenomeno degli scrittori sui muri, il punk, il cyberpunk, etc.), i loro luoghi e forme di organizzazione spontanea, sono l’esempio migliore fino ad ora prodotto e rilevabile non solo a livello sociale ma anche scientifico e artistico di modello coevolutivo.


Senza avere obbiettivi di tipo scientifico, tali ‘movimenti’ rappresentano la realizzazione pratica dell’ipotesi di lavoro delle reti di tipo bottom-up, dei sistemi caotici e non lineari. Laddove tali teorie si scontrano con i limiti del linguaggio usato nel formularle, il ‘movimento’ nella sua capacità di transitare e far uso di linguaggi molteplici, di garantire l’autonomia individuale e far emergere comportamenti collettivi che non sono patrimonio specifico di nessun soggetto in causa, tale modello spontaneo e collettivo è l’esempio migliore che si possa fornire per descrivere l’idea di arte coevolutiva.
E’ con gli esempi di cui il nostro secolo è pieno nel settore artistico (le avanguardie prima e dopo la seconda guerra mondiale), con le recenti ricerche scientifiche, con i modelli sociali tipici dei ‘movimenti’, è guardando e studiando tali esempi che le istituzioni devono attualmente confrontarsi sia nel campo sociale che nel campo artistico per una revisione generale dei propri metodi e modalità di esistenza. Le istituzioni devono entrare nelle dinamiche delle cose, non proporre o imporre modelli cristallizzati e riduzionisti. Le istituzioni, devono lasciarsi ‘sommergere’ dalla collettività, dissiparsi in essa, vivere nell’anonimità della criticità organizzata. Le istituzioni devono emergere spontaneamente dai sistemi di relazione e autopromuoverne i benefici. Le norme devono emergere direttamente dal basso ed essere in grado di coevolvere con la complessità caotica del sistema. Sviluppiamo la scienza, l’arte e la cultura aprendone i confini alla collettività, distribuendone i saperi in modo indifferenziato e permettendo che tali saperi ritornino indietro arricchiti mutati e per mutare con le molteplici esperienze che solo i sistemi aperti possono garantire.
Definiamo l’opera nella promozione di senso della collettività e nell’evoluzione cooperativa di tale senso. Definiamo l’opera nei sistemi di relazioni che in modo irriducibile ma dinamico producono nuove forme di auto-organizzazione mutualista.

Integriamo dunque ai colori della tavolozza le teorie della scienza, le relazioni sociali, e ogni disciplina che possa contribuire alla realizzazione di infiniti quadri collettivi sulle trame delle tele della vita.