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martedì 10 agosto 2010

Noi abbiamo bisogno d’utopia!!!

Noi abbiamo bisogno d’utopia! dalla “Carta della Terra” ai “Nuovi fattori di ricchezza”
di Paolo Coluccia


Venne posta ad un primo ministro africano, durante un forum di Davos, la seguente domanda:
Se i poveri vogliono diventare come i ricchi, occorrerebbero almeno cinque pianeti in più. Siccome non ne abbiamo che uno, il problema si pone tra i ricchi. Esiste una visione che possa tener conto di questa problematica?”.
Il primo ministro rispose in modo negativo. Questa domanda, comunque molto ingenua, pone il nodo della questione dei rapporti tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. La risposta non può che essere una: “Ritrovare il senso della misura”, non trascurando una visione panoramica (pan-ottica) del mondo intero e dell’umanità. Riportare il senso della misura è dunque vegliare affinché nessuno venga escluso, né l’uomo, né la natura, né il sacro.



“Disfare lo sviluppo, rifare il mondo”, UNESCO, Paris 2002

1. Anno 2004: si è sentito parlare, anche se in maniera sommessa, di un documento top secret del Pentagono. Il documento è stato voluto dall’Amministrazione americana del Presidente Bush per tentare di giustificare il suo rifiuto di aderire al Protocollo di Kyoto. Ma il contenuto del rapporto gli si è rivoltato contro: “Sarà catastrofe climatica entro il 2020”. Purtroppo, gli esperti incaricati non hanno potuto che costatare lo stato di degrado, per molti versi irrimediabile, del Pianeta. In un quotidiano inglese, che aveva avuto modo di leggere alcune parti del Rapporto, si leggeva infatti che la catastrofe climatica in atto a livello mondiale avrebbe portato il mondo alla rovina in un periodo molto breve, intorno al 2020.

Tra le mie reminiscenze filosofiche, mi ritorna alla mente la confusione sul detto di Protagora (L’uomo è misura di tutte le cose, di tutte le cose che sono in quanto sono, di tutte le cose che non sono in quanto non sono) perpetuata dal mondo moderno e l’interpretazione più ermeneutica ed autentica dello stesso detto da parte di M. Heidegger, che dice: “Di tutte le cose (cioè di quelle di cui l’uomo fa uso e fruisce e perciò ha costantemente intorno a sé) l’uomo (via via) è misura”.
È facile capire la differenza. In verità, nella modernità sembra aver vinto l’individualismo egocentrico dell’Occidente, avviluppato tra edonismo e bisogno infinito, ovvero l’idea di progresso come dominio, occupazione e sfruttamento del mondo e della vita.

Che dire dell’evoluzione drammatica e caricaturale del diritto ambientale internazionale?
Si va dalla prosopopea demagogica dello “sviluppo sostenibile” di Rio de Janeiro (1992) all’abbondanza di “ostriche” delle cene di lavoro di Joannhesburg (2002) e al “nulla di fatto” di Buenos Aires (2004). Comunque, meglio di niente? Ci sono stati anni (il famoso trentennio dello sviluppo economico del dopoguerra) molto più angoscianti, durante i quali economicismo, capitalismo, tecnocrazia e pianificazione hanno fatto veri disastri.

Occorre dire la verità in maniera decisa. Siamo coscienti e consapevoli della demenziale corsa all’accaparramento delle risorse del mondo occidentale, come pure delle manifestazioni distopiche del capitalismo e delle sue metamorfosi strutturali. L’utopia perversa (distopia) del capitalismo consiste nel credere che la mano invisibile del mercato possa trasformare i vizi privati in virtù pubbliche. “La realtà ci fornisce continuamente la prova contraria: la corruzione privata degenera in corruzione pubblica, il lucro – elevato al rango del fine dell’economia – finisce per contaminare le altre forme di legame sociale”.
Le teorie false e mistificanti di Lester Turrow sulla “piramide della ricchezza” e sulla crescita economica infinita vanno sicuramente denunciate e contraddette. Infatti, più che ad una crescita omogenea e decente, si assiste alla nascita di una mistificante società duale, che persiste nelle medesime nazioni materialmente sviluppate. Il conflitto perenne tra popoli, sublimato dalla competitività, genera mostruose guerre economiche, camuffate da guerre ideologiche, che mietono più vittime di quanto si pensi. Non si può permettere che simili falsità continuino a prendere in giro la povera gente e gli stessi governi.


Dobbiamo superare il dogma dell’economicismo utilitaristico. Abbiamo bisogno di nuovi paradigmi socio-economici, per costruire una società più giusta e fraterna. In questa sede posso solo accennare ad alcune azioni fortemente innovative, solo a titolo d’esempio, che possono organizzarsi nella propria città, visto che il tema della nostra discussione è proprio la città, con tutta la sua ricchezza e tutte le sue contraddizioni sviluppistiche dettate dal capitalismo e dalla tecnocrazia. Le innovazioni, innanzitutto culturali, che richiamo rispetto al dogma dell’economicismo utilitaristico sono:
  • Il Parecon (Participatory Economics), descritto da M. Albert nel suo libro sull’economia partecipativa.
  • La Carta della Terra, documento che ormai è ampiamente conosciuto su internet, che descrive la situazione, le sfide e la responsabilità universale[8].
  • L’Impronta ecologica: I'impronta ecologica = P (popolazione) x A (merci) x T (tecnologia), che ci permette di stimare il consumo delle risorse e l’assimilazione dei rifliuti di una popolazione o di una nazione, individuando in termini di grandezza superfici di territorio produttivo corrispondente[9].
  • Sviluppi possibili: i cantieri di “PermaCultura”e il programma di Alliance21 Per un mondo responsabile, plurale e solidale.

“Noi abbiamo bisogno d’utopia. Attualmente, gli utopisti sono i realisti, per pensare un altro mondo, un’altra globalizzazione più solidale e fraterna, è una necessità inappellabile”. Questo ha detto Ali Kazancigil, segretario del Programma MOST dell’UNESCO, durante il Colloque di Parigi sul dopo-sviluppo “Défaire le developpement, refaire le monde” (2002).

Si presenta la necessità di una nuova prospettiva strutturale: ripensare la ricchezza.

Il Rapporto, già citato, sui nuovi fattori di ricchezza preparato da Patrick Viveret per il Ministro per l’economia solidale francese porta proprio questo titolo. La nostra rappresentazione attuale della ricchezza aggrava i problemi generali con i quali le nostre società si confrontano invece di aiutarci a risolverli. Le catastrofi ambientali, frutto della corsa allo sviluppo e della crescita economica, sono una benedizione per il nostro Prodotto Interno Lordo. Sembra un paradosso, ma è vero: questo afferma Viveret nel suo Rapporto al Ministro francese per l’economia solidale nel 2001/2002. Bisogna riflettere su questo ed occorre iniziare a pensare a nuovi indicatori di ricchezza. “Ogni distruzione, allorché genera dei flussi monetari (riparazioni, cure, assicurazioni, sostituzioni ecc.) è contabilizzata positivamente. Ogni attività non monetaria invece così vitale ed essenziale per il legame sociale (compiti domestici, educazione dei ragazzi, cure benevole di persone anziane, salvaguardia dell’ambiente ecc.) è invisibile nei nostri conti pubblici”. Abbiamo bisogno di un nuovo termometro per misurare la nostra ricchezza, senza affidarci al responso delle centraline metropolitane che misurano il grado di tossicità dell’aria e alle misure pleonastiche di qualche “domenica a piedi”. Emerge la necessità di uno stato ecologicamente e socialmente responsabile.

L’equivalenza: «Più distruzioni = Più PIL» non regge più.
Liberismo e marxismo, le due grandi ideologie del secolo scorso, malgrado la violenza dei loro conflitti politici e sociali, hanno concordato «sull’idea che l’essenziale, la struttura, risiede nell’economia, fondatrice, mediante il lavoro produttivo, di ogni ricchezza possibile». Si è trattato di un «accecamento» comune, che ha causato:
  1. La noncuranza ecologica: la natura, trattata come semplice fattore di produzione, i cui beni abbondanti e gratuiti che sono l’aria, l’acqua e la terra non hanno in se stessi alcun valore;
  2. La noncuranza etica: quella del liberismo, per il quale non importa quale desiderio ha un valore economico quando viene esaudito, quella del marxismo per il quale la morale trascende la storia;
  3. La noncuranza politica. Lo stato, ridotto ad essere garante del mercato nella versione liberale, è lo strumento della dominazione di classe nella versione marxista; (la politica) ridotta ad una dimensione minimale nel liberismo, è denunciata come formale nel marxismo;
  4. La noncuranza antropologica. L’uomo economico è considerato un calcolatore razionale del mercato o della storia; non c’è considerazione seria, in queste due grandi rappresentazioni, dell’ampiezza del fatto passionale e del continente sotterraneo [nell’essere umano].
È tempo di cambiare il nostro «termometro» di misurazione e la nostra rappresentazione della ricchezza. Per questo occorre stimolare un ampio dibattito pubblico, per deliberare sui valori, per ricucire ciò che l’economicismo ha strappato nei legami sempre esistiti tra etica ed economia, dove quest’ultima, più che diventare una scienza morale, deve almeno riconoscersi al servizio di finalità morali, politiche e sociali.
Il PIL non è la ricchezza!
E, soprattutto: «La vera globalizzazione non può realizzarsi contro la maggior parte dell’umanità e distruggendo l’aspetto ecologico ed umano». La vera ricchezza non può essere soltanto quella materiale.

È dunque un problema di scelta. Altrimenti dovremo cominciare a pensare a come poter vivere sotto una cupola di plastica ossigenata artificialmente. Ma è anche “un problema di desiderio”, ci suggerisce Humberto Maturana. “La conservazione non è per la terra, è per noi stessi; la biodiversità è importante per il nostro benessere fisiologico, psichico, relazionale, estetico… è un problema di desiderio”.

L’utopia ambientale è speranza di felicità e di giustizia. Per questo occorre rinnovare l’impegno civico-comunicativo: “Più s’incrementa la coscienza ecologica, più potente essa diventa… Se no, o ci estinguiamo o ci trasformiamo per forza in esseri che vivranno in un mondo artificiale, che sarà pertanto il nostro nuovo mondo ‘naturale’. E’ questo che chiediamo? Non c’è razionalità nel mondo, non c’è finalità in esso. C’è solo un intreccio di relazioni. Il mondo va alla deriva. Alla Terra non importa nulla che si estingua la vita, non sarebbe il primo pianeta che muore”.

E Maturana conclude: “Insisto: la conservazione non è per la terra, non è per la biosfera, è per NOI STESSI!”.


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